“Il cibo è fondamento di relazionalità che crea comunicazione”. Da questa verità molte sono le domande che si pongono. Chi sa se è ancora possibile rinunciare al valore di scambio del proprio vissuto quotidiano, per un attimo di valore d’uso del tempo da vivere, in pura perdita, ma all’insegna della spensieratezza del cibo buono, di cui i profumi e i sapori si colgono per quello che sono della natura donata e anche delle cure dei campi? Chi sa se appena il ricordo riesca all’intento, perché la questione rimanga quel tempo felice senza necessità, che la vita attiva e riuscita non degna e che il riposo rifugge come la fine? Chi sa? L’interrogativo vale la pena, se non altro si può sempre cercare, chiedere intorno, tentare con altre persone di valutare l’importanza e la pertinenza della domanda, fare opinione insomma, operare così sul tempo per deviarlo dalla sua assurda precipitazione, perché è il tempo la ragione della banalità del cibo non appena s’intuisce che l’ingestione del cibo è richiesta dalla domanda della società costituita per la riproduzione delle proprie forze, ecco che scadono i termini del desiderio, cioè di quella sensazione originaria intrinseca all’umanità in quanto tale, perché in quel gesto necessario si realizza un atto dovuto, si assimila il tempo da spendere, il tempo come merce. La vita come merce.